Questo si domandava Ende, nella Prigione della Libertà: cosa significa il ricordo, quanto è fragile la coscienza che fondiamo basandoci su questo; il reale è solo l’attimo infinitesimale del presente che già è passato e non più reale quando lo vogliamo prendere in considerazione. L’autore poi proseguiva domandandosi se, vista l’essenza di questi ricordi, non fosse possibile serbare memoria anche di posti dove non si era mai stati e provarne nostalgia. Il personaggio, nella sua ricerca di questo luogo capitanava nel tugurio di un mercante, veneziano credo, che gli spiegava come i luoghi che non esistono, nel momento in cui sono scoperti, sono sempre esistiti, anche se prima non v’era traccia di loro nel mondo umano.
Una storia surreale, che qualcuno imputerà all’influenza del padre, che tal’altro considererà il segno, sintomo di qualche nascosto complesso,la metafora di qualcosa … per quanto mi riguarda, invece, è un racconto che mi affascina e che mi permette delle interessanti riflessioni.
Se penso a cosa alcune psicologie dicono intorno al ricordo (anche le psicologie sono una nessuna, centomila), la riflessione può coinvolgere quello che taluni chiamano la nostra identità. Il ricordo non esiste congelato in noi, non è stabile immutabile, non esiste un posto tra i neuroni e la glia dove trovano posto fisico i nostri ricordi, né questi vivono nello stesso mondo e sono della stessa sostanza delle montagne o della pietra, ma sono delle rielaborazioni che di volta in volta ricostruiamo: serbiamo pochi punti, diffusi in una rete di nodi a mille dimensioni, e quando serve pizzichiamo delle corde, viaggiano sugli accordi e creiamo di volta in volta dei ricordi e narrazioni, che col tempo si possono consolidare in forme tipiche. Tra questi ricordi trovano spazio anche le nostre storie personali, che creano chi siamo: noi siamo la storia che scriviamo di noi stessi, una storia in itinere, che ha in sé delle strade, ma che le può anche abbandonare e, non solo, in certi casi riscriviamo anche il nostro passato alla luce del nostro presente. La nostra identità diventa un corpo di nebbia che tentiamo, con uno sforzo di volontà e di forza, di mantenere saldamente unito in una forma a dispetto dei venti che ci investono, ma che spesso assume le sembianze più adeguate alle correnti. Sottolineo che queste sono riflessioni che seguono i miei studi e fanno riferimento ad un corpus teorico, menti più brillanti e importanti hanno già sviscerato queste questioni, io mi limito a studiare e cercare di comprendere. E non sarebbe finita qui, ma quello che m’interessava sottolineare era l’importanza del nostro ricordo di noi stessi, per sapere chi siamo. Senza i nostri ricordi, senza la nostra seppur flebile e transitoria storia, scritta e riscritta, col presente e il futuro, non potremmo essere chi siamo. E il presente è davvero un attimo infinitamente breve che possiamo considerare e capire solo nel ricordo raccontato. Sacks (per intendersi ha scritto anche risvegli, da cui hanno tratto l’omonimo e splendido film) scrisse, ne “l’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”: si potrebbe immaginare che ognuno di noi costruisce e vive un racconto, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità … ciascuno è una biografia, una storia … un racconto peculiare costruito di continuo (pg 153).
Pensate, allora, che cosa possa voler dire perdere il ricordo di noi stessi, perché senza la nostra storia non potremmo mai sapere chi siamo. Se il nostro passato, se una cosa quando la scopriamo è sempre esistita, quando perdiamo la storia di noi stessi, allora questa è come se non fosse mai esistita, e noi non sappiamo più chi siamo: capiamo che chi ci guarda dallo specchio dobbiamo essere noi, ma non sappiamo più se ci facevamo la coda ai capelli o se i portavamo sciolti e finché non abbiamo uno specchio non possiamo nemmeno immaginare che taglio hanno. Non sappiamo cosa ci piace, ma soprattutto non sappiamo chi siamo e non abbiamo idea di come condurre la nostra storia, perché ci manca il terreno sotto i piedi e quell’attimo infinitesimale del presente spesso perde senso, perché non possiamo inserirlo entro in un percorso di vita, in un insieme di esperienze; non abbiamo più occhi per vedere quanto ci accade, ma possiamo solo guardare cercando dei frammenti di significato che fuggono.
La coscienza che fondiamo sui nostri ricordi, che ci guida nella ricerca di senso e nel tessere il nostro arazzo cangiante, è un palazzo da mille e una notte, con stanze inesplorate, ma è anche fragile e diafano, basta un soffio per farlo sparire.
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